Stanno davvero cambiando i rapporti tra Cina e Medio Oriente? E se sì, come? A danno o beneficio di chi? Sono domande che emergono spesso quando la Cina fa capolino sulla scena mediorientale e, a volte, i toni sono quasi allarmistici. Ma la presenza di Pechino in Medio Oriente non è cosa nuova. Come sta evolvendo, allora? E che impatto avrà sull’Europa? Ne parliamo in questo articolo.
Il ruolo della Cina in Medio Oriente
Facciamo subito una premessa: il ruolo di Pechino e quello di Washington in Medio Oriente sono molto diversi. Ecco perché dire che “la Cina aumenta la presenza in Medio Oriente” non significa dire che “la Cina sta progettando la scalata a danno degli Stati Uniti”. Sono concetti non soltanto riduttivi, ma in un certo senso anche pericolosi: sia perché alimentano stereotipi, sia perché spostano l’attenzione dai fatti rilevanti.
Tanto per cominciare, la Cina è da tempo una presenza importante per molti Paesi mediorientali. Basti pensare che Pechino è il primo partner commerciale per molti Stati della zona: è, per esempio, il primo Paese importatore e il primo esportatore in Iran e Arabia Saudita, in Yemen e in Kuwait. È anche il primo importatore in Giordania e negli Emirati Arabi Uniti e tra i primi cinque importatori in Israele, Bahrein, Qatar e Turchia.
Il ruolo della Cina fino a oggi è rimasto strettamente legato al tema dell’economia: una presenza, cioè, che punta a salvaguardare gli interessi cinesi. Ed è proprio qui la grande differenza con Washington, la cui presenza è strategica non solo a livello economico, ma anche militare e geopolitico.
Ricordiamo che gli Stati Uniti hanno più di trenta basi militari in Medio Oriente, tra cui la più grande è in Qatar. Gli analisti sono concordi nel ritenere improbabile che Pechino aspiri a sostituire Washington in ambito militare, perché significherebbe assumersi responsabilità che non è in grado di sostenere adesso. Qual è l’obiettivo della sua espansione nella zona, quindi?

Cina e Medio Oriente: solidi partner commerciali.
L’obiettivo principale di Pechino è quello di assicurarsi una solidità economica e, al tempo stesso, favorire la propria indipendenza dagli scambi commerciali in dollari. Obiettivo: l’uso della sua moneta, lo yuan. Washington, infatti, resta oggi e sicuramente a medio termine il punto di riferimento finanziario, con il dollaro come valuta ufficiale: e questo è un enorme potere. Ma con le sue mosse, Pechino vuole sganciarsi da questa situazione. Come?
Una mossa storica si è vista lo scorso marzo: Pechino ha siglato un accordo per l’acquisto di gas naturale liquefatto dagli Emirati Arabi Uniti, che prevedeva l’acquisto proprio in yuan. E sono anni che la Cina porta avanti colloqui e trattative anche con l’Arabia Saudita (il Paese mediorientale che più sta cercando di aumentare la propria influenza a livello globale), per avviare transazioni in yuan in un settore strategico: il petrolio. Va detto, però, che Riyad non ha ancora dato segnali chiari, a parte un ulteriore avvicinamento a Pechino che, però, è legato anche all’insoddisfazione dei rapporti con Washington e a scelte non condivise. Ma questo non basta, al momento, per abbandonare il dollaro a favore dello yuan.
I motivi per incentivare gli scambi in valute diverse dal dollaro, però, si spingono oltre e sono strettamente connessi all’esperienza russa. Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, la risposta di Europa e Stati Uniti ha investito ovviamente anche la sfera finanziaria e Mosca si è ritrovata esclusa dalle operazioni in dollari. Bene, poter contare su transazioni in yuan significherebbe per Pechino assicurarsi una continuità nel caso si ritrovasse in situazioni simili. Un esempio?

Pechino, l’area militare e la guerra cibernetica
Pensiamo a Taiwan. Le tensioni con la Cina sono aumentate nell’ultimo anno anche a causa della vicinanza degli Stati Uniti a Taiwan (diplomaticamente parlando). Di recente, Pechino ha risposto in vari modi: ha aumentato la presenza militare nella zona antistante all’isola di Taiwan, ha messo in atto esercitazioni militari e, di recente, ha lanciato una sorta di “chiamata alle armi”.
Il governo cinese (che con i suoi 2 milioni di soldati può contare sull’esercito più grande del mondo) ha infatti preso alcune misure per favorire l’aumento dei suoi militari e puntare su competenze nelle aree che stanno alla base della cosiddetta guerra cibernetica, come l’informazione e le telecomunicazioni. E sempre nell’area militare, Pechino ha anche aumentato il suo budget militare, confermandosi il secondo più alto del mondo, dopo quello degli Stati Uniti.
Sempre in campo militare, da quando la Cina ha aperto, nel 2017, la sua prima base all’estero in Gibuti (uno Stato dell’Africa centro-orientale, piccolo ma strategico perché ha accesso al Mar Rosso e dista solo 30 chilometri dallo Yemen, via mare), Pechino ha destato la preoccupazione degli Stati più occidentali. Starebbe infatti investendo somme ingenti nelle infrastrutture di Abu Dhabi anche in questa ottica, mentre è dell’8 maggio la notizia che il ministro della Difesa cinese ha esortato ufficialmente il Pakistan a rafforzare la già attiva cooperazione in materia di sicurezza nazionale.
Qui va ricordata la pietra miliare su cui si fondano i rapporti tra Cina e Medio Oriente, ribadita negli ultimi incontri tra il presidente Xi Jinping (che tra l’altro è stato rieletto per la terza volta proprio quest’anno) e il principe saudita Mohammed bin Salman Al Saud: la non interferenza nei reciproci affari interni.

L’importanza della lingua: no all’inglese
Gli accordi di “non interferenza” sono fondamentali per capire il livello diplomatico su cui si muovono i rapporti tra Cina e Medio Oriente. La mediazione cinese è stata la chiave per raggiungere traguardi importanti che Washington non era riuscita a chiudere, come la ripresa dei rapporti diplomatici tra Iran e Arabia Saudita dopo sette anni. Ma è anche vero che Pechino si muove cauta e si pone, appunto, come una forza mediatrice che cerca soluzioni all’interno dei Paesi stessi, senza ingerenze esterne.
E questo è un atteggiamento che piace molto non soltanto ai governi mediorientali, ma anche ai loro stessi cittadini perché si oppone a quello statunitense. Da decenni, infatti, la presenza anche militare di Washington nei Paesi del Medio Oriente e soprattutto la sua visione interventistica non ha fatto che aumentare l’insoddisfazione anche a livello sociale.
In questo senso, una decisione presa da Riyad, Iran e Pechino negli ultimi colloqui trilaterali è stata particolarmente apprezzata: quella di non utilizzare l’inglese come lingua ufficiale, bensì arabo, farsi e cinese. E questo è stato un piccolo, eppure importante modo per comunicare all’esterno che i rapporti tra Cina e Medio Oriente sono fondati su stima, rispetto e armonia.
Cina e Medio Oriente sempre più vicini: ecco le implicazioni.
Il rafforzamento dei rapporti tra Cina e Medio Oriente ha implicazioni che vanno al di là di nuovi equilibri con Washington. Un attore mediorientale che si nomina poco in questi casi è Israele. Come è stato ben illustrato in questo articolo la posizione di Pechino come punto di riferimento diplomatico nell’area mediorientale potrebbe portare a uno scontro, sempre diplomatico, con Israele. È difficile, per esempio, pensare a una Cina completamente neutrale in un conflitto come quello tra Israele e Palestina.
Senza dimenticare altri due annosi conflitti: quello in Yemen e quello in Siria. Damasco in particolare, sta attraversando un periodo delicato: da mesi sono in atto consultazioni per restituire alla Siria il suo posto all’interno della Lega Araba.
E ora tocca a te: scrivimi pure nei commenti le tue riflessioni e le tue domande!