Crisi climatica e aridificazione: una best practice in Medio Oriente

Mettere da parte divergenze politiche e conflitti decennali in nome del Pianeta. Non è un sogno, ma è una reale possibilità. In Giordania, Palestina e Israele si potrebbero superare gli storici conflitti proprio per affrontare alcuni gravi problemi legati alla crisi climatica in Medio Oriente. Ti racconto tutto in questo articolo (il primo di una serie), dove la biologa ambientale e consulente in sostenibilità Mimosa Magnani fa luce su molti aspetti di una situazione che riguarda tutti noi.

Crisi climatica e aridificazione

A che cosa pensi se ti dico “aridificazione”? Ti dico quello a cui pensavo io fino a qualche tempo fa: il deserto che si estende, andando a inglobare aree prima rigogliose – un fenomeno limitato a zone aree, quindi, dove il deserto è già esistente, o comunque a zone già abbastanza aride, come molte zone del Medio Oriente.

Questo, però, è del tutto sbagliato. Ecco perché ho pensato che un articolo su questo tema sarebbe stato decisamente interessante su questo sito. Ho cercato una persona esperta e con lei ho invece scoperto che quello dell’aridificazione è un concetto molto più ampio e un fenomeno che riguarda gran parte del nostro Pianeta. Italia compresa.

Perché si chiama aridificazione?

L’aridificazione è lo stadio prima della desertificazione. Vediamone la differenza semantica, esplorando le definizioni dell’enciclopedia Treccani:

  • Aridità: stato di siccità – condizione del suolo che si ha quando è privo di regolare flusso idrico (non assente, dunque).
  • Deserto: paesaggio determinato da un regime climatico con precipitazioni annue inferiori a 200 mm (cioè quasi assenti).

Ecco allora la differenza cruciale: quando parliamo di desertificazione di un territorio, ci riferiamo a una condizione irreversibile, dove scompare la biosfera. È, insomma, la trasformazione finale, oltre cui non c’è più nulla.

“L’aridificazione, invece, indica una tendenza e non una emergenza” spiega Mimosa Magnani: “è il processo attraverso cui una regione a clima umido si trasforma in una zona a clima arido – ed è qui che possiamo e dobbiamo mettere in atto strategie di adattamento”.

È importante usare il linguaggio giusto (come sempre, del resto) anche per essere più consapevoli di quanto succede intorno a noi e di ciò che stiamo vivendo da vicino, ogni giorno. Ecco perché, per esempio, si sta cercando di sensibilizzare all’uso di un termine come “aridificazione”, perché in questo modo si focalizza l’attenzione sul lungo termine. Parole come “ondate di calore” o “momento di siccità” sono invece fuorvianti, poiché fanno pensare a qualcosa di temporaneo, da cui si può uscire senza alcun intervento esterno.

A quella situazione di partenza, però, è impossibile tornare se non si interviene. “Ciò che possiamo fare è rallentare e contrastare il processo”, sottolinea Magnani.

Pic by Muhammad Numan via @unsplash

Ma perché avviene, questo processo di aridificazione?

Avviene per un insieme di cause: per eventi naturali e attività umane. “Oggi assistiamo a un disallineamento tra l’uso di acqua nella vita quotidiana e le precipitazioni, sempre più scarse” sottolinea Magnani. “Questo, però, è ancora più accentuato da interventi umani quali l’abbandono delle aree coltivate”.

Un esempio su tutti? Prendiamolo proprio dal Medio Oriente: nelle aree dove si estrae in modo più importante il petrolio, il terreno non viene più coltivato e perde la sua naturale funzione. O ancora, pensiamo a tutte quelle aree coltivate, che vengono convertite in aree abitate.

        Quali sono le aree del pianeta colpite dall’aridificazione?

        La risposta a questa domanda è un po’ diversa da quanto ci si potrebbe aspettare. Perché è tutto il pianeta ad essere interessato. Ci sono, certo, Paesi più colpiti di altri, ma non sono pochi: “Sono circa 200 i Paesi più interessati dall’aridificazione, per un totale di circa un miliardo di persone coinvolte”, conferma Magnani. “Entro il 2050, il 50-60% di tutto il nostro pianeta dovrà fare i conti con questo fenomeno.

        Il continente più colpito è comunque l’Africa, in particolare il sud Sahara e il Corno d’Africa. Poi l’Asia (soprattutto Medio Oriente, Cina e India), il Sud America, gli Stati Uniti e l’Australia. E infine l’Europa: l’Italia ma anche l’Ungheria e la Romania.

        Per quanto riguarda il nostro Paese, già il 28% di tutto il nostro territorio è interessato dall’aridificazione: il sud, certo, ma ultimamente anche il nord Italia.

        Un fenomeno che è bene ricordare è quello delle inondazioni: stanno diventando sempre più frequenti proprio a causa della maggiore aridità del suolo, che porta a sua volta a una minore permeabilità. In parole povere, il suolo non riesce ad assorbire l’acqua, che resta in superficie causando allagamenti e disastri di proporzioni anche enormi.

        Pic by YODA Adaman via @unsplash

          Crisi climatica e aridificazione in Medio Oriente

          Torniamo ora in Medio Oriente. Gli esperti stimano che, in questa regione, le temperature medie annuali saliranno di 4-7 gradi entro la fine di questo secolo. Se pensiamo che il limite per un contenimento del fenomeno dell’aridificazione è stato fissato a 2 gradi, ci rendiamo immediatamente conto della gravità.

          Il tasso di piovosità in Medio Oriente diminuirà di almeno il 40% in Giordania, mentre in Iraq le precipitazioni dovrebbero addirittura scomparire. Parallelamente, aumenteranno le tempeste di sabbia e questo renderà impossibile lavorare all’aperto.

          Una grave conseguenza di questo processo, che purtroppo è già realtà, è la scarsità di acqua potabile e l’inquinamento di sorgenti utilizzate da tutte quelle persone che non ricevono acqua nelle rispettive case e sono quindi costrette ad attingere a pozzi o fiumi. Accade, per esempio, in molte parti della Siria, dove la guerra ha esasperato questo problema.

          L’inquinamento delle acque sta minacciando anche la sicurezza sanitaria: di qui l’aumento di malattie come il colera, che ha ricominciato a diffondersi in Siria, sul finire del 2022, e ad espandersi anche in Libano.

          Come ha ben riassunto anche Amnesty International, la situazione è allarmante e aggravata dal mancato impegno da parte dei principali produttori di petrolio.

          Eppure, si può – e si deve – intervenire per contrastare o almeno rallentare il più possibile questo processo. Ed è proprio il Medio Oriente a offrirci un grande esempio di quella che potrebbe essere non solo una best practice, ma anche un modello di cooperazione internazionale, in grado di lasciare in secondo piano lunghi conflitti e storiche divergenze, per mettere, invece, in primo piano il bene dell’umanità e del pianeta.

          Pic by Nicolas Houdayer via @unsplash

          Il progetto Green Blue Deal – Ecopeace Middle East.

          Qui siamo di fronte a un processo complesso che vede lavorare insieme Giordania, Israele e Palestina grazie alla Ong Ecopeace Middle East, che è sul campo dagli anni Novanta con la missione di promuovere progetti transnazionali. La sfida del Green Blue Deal in particolare, è quella di riabilitare il fiume Giordano (dove venne battezzato Gesù, per intenderci) ridando vita alla sua biosfera.

          Come? Attraverso l’energia solare: l’energia elettrica prodotta in Giordania da impianti fotovoltaici, verrebbe fornita a impianti di desalinizzazione in Israele, che ricambierebbe fornendo acqua pulita a Giordania e Palestina. L’impegno è quello di ripristinare la qualità del fiume – che è così inquinato e prosciugato che da anni non si celebrano più i battesimi che lì avevano luogo da secoli.

          Si tratta di un grande esempio di resilienza e adattamento, di un progetto dalle grandi potenzialità a livello ambientale ma anche umano, sia perché vede collaborare popolazioni storicamente in conflitto, sia perché la gestione è a maggioranza femminile. Il Green Blue Deal si basa su quattro pilastri:

          • lo scambio tra energia e acqua pulite
          • la riabilitazione del fiume Giordano
          • una più naturale ridistribuzione e gestione dell’acqua
          • la promozione della consapevolezza, soprattutto fra i giovani, di come la cooperazione nel settore ambientale possa essere un mezzo di risoluzione dei conflitti

          Al momento, il Green Blue Deal è ancora sulla carta, proprio a causa degli storici conflitti tra i Paesi protagonisti del masterplan. Ma le potenzialità sono enormi ed è per questo che anche la comunità internazionale sta facendo pressioni sui governi, affinché si passi ai fatti. Nel frattempo, Ecopeace Middle East si è fatta promotrice di altri progetti correlati: come la realizzazione del “Jordan Ecopark”, un’oasi di biodiversità dove la costruzione di impianti di depurazione ha permesso di abbassare i livelli di inquinamento delle acque del fiume Giordano.

            E adesso chiedo a te: quali di questi aspetti vorresti approfondire? Conosci altri progetti simili, in aree di conflitto? TI aspetto nei commenti, per riparlarne nel prossimo articolo sullo stesso tema!

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