Proteste in Siria: il ruolo della comunità drusa

Sono passati più di 13 anni dall’inizio della guerra in Siria. Il conflitto è terminato? No. I combattimenti si sono concentrati in aree più piccole, è vero, ma il Paese è lontano dal raggiungere stabilità e sicurezza. E i suoi cittadini sono stremati da una inflazione che impedisce a molte famiglie di comprare cibo a sufficienza per tutti. Ed è questo il vero motivo delle ultime proteste in Siria: in questo articolo esploriamo in dettaglio le ragioni e le conseguenze non solo per il Paese, ma anche per la comunità internazionale. E troverai anche il contributo di chi che sta vivendo, ora, proprio questa situazione.

Le proteste in Siria si erano spente?

In realtà no: erano meno frequenti e oscurate dalle immagini di una Damasco tornata alla normalità (e se vuoi una panoramica sulla situazione in Siria, pui leggere il mio articolo “Guerra in Siria: perché è scoppiata e come influenza l’Europa“). Per di più, il presidente siriano, Bashar Al-Assad, ha incassato qualche buon successo nell’ultimo anno: per esempio la riammissione della Siria nella Lega Araba, o la riapertura dei canali diplomatici con alcuni Paesi, come la Tunisia.

Ma fuori dalla capitale e dalle mosse della diplomazia, le cose sono molto diverse. “Abbiamo due figli, solo mio marito lavora ma non dobbiamo mantenere soltanto noi quattro”, mi racconta Amal, una ragazza che conosco da tempo.

“Noi siamo fortunati perché mio marito lavora per un’azienda internazionale, e così con il suo stipendio aiutiamo anche alcuni miei zii e cugini: il lavoro è un privilegio e non possiamo tenere tutti per noi” continua. “Molte persone riescono a trovare piccoli lavori, ma costa tutto così tanto che quello che guadagnano in un mese non basta per mangiare neanche per due settimane”.

La situazione che racconta Amal è molto comune, in Siria come in tutte le zone di guerra: chi lavora fa di tutto per aiutare l’intera famiglia, anche allargata – ammesso che abbia un buon rapporto con i propri familiari.

L’inflazione al centro delle nuove proteste in Siria.

L’inflazione ha colpito duramente il costo della vita in Siria e ha reso sempre più difficile, per la stragrande maggioranza della popolazione, permettersi i beni di base. La causa principale è legata al valore della lira siriana, che è in continuo declino. A questo vanno aggiunte la carenza di carburante, le interruzioni dell’elettricità e la mancanza di acqua, che spesso non arriva per giorni. Secondo Save the Children, tra il 2019 e il 2021 il prezzo dei prodotti alimentari di base è aumentato di oltre l’800%.

La bandiera siriana vista da Jabal Qasioun, Damasco
La vista su Damasco da Jabal Qasioun – Copyright @teresapotenza

Basti pensare che solo negli ultimi mesi, la lira siriana ha perso oltre l’80% del suo valore. Non è un caso se l’inviato speciale del Segretario Generale per la Siria, Geir O. Pedersen, ha ribadito allo stesso Consiglio di Sicurezza dell’ONU che i prezzi dei beni essenziali sono ormai fuori controllo e che la crisi economica e umanitaria nel Paese è in continuo peggioramento e va affrontata subito.

“Se prima acquistavamo una confezione di pane per poche lire (siriane, n.d.r.), oggi anche questo è diventato un bene di lusso e si cerca di prepararlo in casa”, spiega Amal.

È come, se oggi, noi andassimo al supermercato e trovassimo che un panino costa 50 euro – o molto di più.

Che cosa sta succedendo a Sweida, nel sud della Siria

Dalla seconda metà di agosto, la città di Sweida è sotto i riflettori internazionali. Sono scoppiate qui le proteste più importanti di questo periodo e si sono poi diffuse in tutto il Paese: soprattutto a Daraa, un’altra città del sud che è stata teatro delle prime manifestazioni del 2011, e poi a Idlib, Deir El-Zor, Raqqa e Aleppo.

La vera peculiarità di queste proteste è che sono al di sopra di schieramenti politici e credo religioso. La popolazione è allo stremo e questo la sta riunificando. Ne è la conferma il fatto che le manifestazioni siano scoppiate proprio a Sweida, città a maggioranza drusa storicamente vicina al presidente Bashar Al-Assad. Eppure, anche i suoi leader politici e religiosi sono scesi in piazza, per sostenere i cittadini e denunciare le ultime decisioni del governo, che hanno contribuito ad allargare il divario tra le fasce più ricche e quelle più povere del Paese, con una fascia media ormai scomparsa.

La punta dell’iceberg è stata la decisione di alzare i salari dei dipendenti statali ma, al tempo stesso, tagliare i sussidi per l’acquisto di carburante: la conseguenza è che restano poche le persone in grado di fare il pieno alla propria auto e raggiungere qualsiasi luogo, compreso il posto di lavoro per chi lo ha.

Le manifestazioni e gli scioperi

Le proteste in Siria hanno assunto anche la forma dello sciopero – e anche questa può considerarsi una novità. “Quasi tutti i negozi erano chiusi”, conferma Amal.

Con le strade piene di cittadini, la polizia ha bloccato l’accesso a diverse zone e ha chiuso anche la sede del partito Baath, quello che fa capo presidente. Per giorni sono rimasti chiusi anche gli uffici di diverse associazioni e istituzioni, per questioni di ordine pubblico.

Aleppp – Pic by Aladdin Hammami via @unsplash

I risvolti internazionali delle proteste in Siria

Mentre il mondo osserva gli sviluppi in Siria, diverse nazioni stanno prendendo posizione, come gli Stati Uniti e la Germania, che esortano il presidente a evitare l’uso della violenza e a impegnarsi in un dialogo costruttivo.

I Paesi che invece sostengono il governo siriano, come la Russia e l’Iran, non hanno ancora commentato pubblicamente le proteste. Eppure, il loro ruolo resta centrale nello sviluppo del conflitto.

Intanto, osservatori, intellettuali e giornalisti si interrogano sui risvolti più profondi di queste proteste. C’è chi le considera un segnale di speranza e cambiamento, e c’è chi teme che possano degenerare in un altro ciclo di violenza.

E non va dimenticata un’altra grave conseguenza della guerra siriana: il grande numero di sfollati, che ha causato ondate di rifugiati internamente ma anche all’esterno, destabilizzando ulterioremnte la regione. Paesi come la Turchia e la Giordania hanno accolto milioni di rifugiati siriani, con un impatto tale sulla politica e l’economia di questi Stati che ormai la direzione è quella di rimpatriare tutti i profughi.

I segnali da tenere d’occhio in un futuro prossimo

Di certo, c’è una consapevolezza crescente tra i siriani stessi (soprattutto tra coloro che sostenevano il presidente) che il Paese ha bisogno di un rinnovamento e di un nuovo inizio. Ecco allora un riassunto dei principali segnali da seguire con attenzione, per capire se e come evolveranno le proteste in Siria e le relazioni geopolitiche:

  • I giovani: sono sempre più attivi e coinvolti, in particolare quelli di età compresa fra i 20 e i 30 anni. Cioè quella generazione cresciuta lottando tra disoccupazione e speranza di un futuro migliore.
  • La ricostruzione. Il governo siriano si sta aprendo sempre più a investimenti stranieri, ma non è ancora chiaro come la popolazione che è ora sotto la soglia di povertà (circa il 90% in alcune del Paese) possa essere coinvolta e trarne beneficio. Ci sono poi Paesi come la Cina e gli Emirati Arabi Uniti che hanno mostrato interesse in politiche di investimento in Siria, ma in questo caso l’ostacolo è dato dalle sanzioni internazionali e dalla mancanza di una soluzione politica.
  • Il dialogo politico. Nonostante i colloqui di pace e le pressioni dell’ONU, sembra ancora lontano il compromesso tra le parti in conflitto e i sostenitori internazionali.
  • Le dinamiche regionali. Da una parte ci sono Paesi come il Libano e la Turchia, che stanno cercando di rimpatriare il maggior numero di profughi possibile. Dall’altra i tentativi di riabilitare il presidente Assad sulla scena internazionale.

Sarà un nuovo inizio?

Difficile dirlo. Più probabile che le cose restino così, almeno per il momento: fino a quando non ci sarà un reale coinvolgimento di altre parti nella ricostruzione del Paese e un supporto vero – diplomatico e logistico – da parte della comunità internazionale, sarà difficile cambiare le cose.

Tanto più che la percezione dei cittadini siriani che vivono all’interno del Paese è spesso distorta: chi non ha accesso a internet vede solo la televisione, ma quello che viene trasmesso è l’immagine di un Paese sicuro, che ha sconfitto chi lo voleva destabilizzare grazie all’amorevole presenza di un governo forte. Il ruolo dell’informazione, in questi casi, è sempre più cruciale.

Che cosa ne pensi di questo scenario? E del ruolo dell’informazione nei Paesi in guerra? Parliamone nei commenti.

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